Un tempo scrivevo poesie d’amore.
Amore di chi, per chi? Non è chiaro nemmeno adesso.
Forse per lui.
O forse per quella parte di me che voleva sentirsi scelta. Desiderata. Preferita.
Scrivevo con trasporto, con dolore, con tutte le parole più grandi che avevo.
Ma a ben guardare, non era amore: era fame.
Era bisogno mascherato da sentimento.
Lui non mi amava?
Forse.
Ma più ancora: non faceva ciò che io mi aspettavo da lui.
Ed era questo che mi faceva male.
Il mio presunto amore era una sanguisuga.
Ma io non ero da meno.
Mi attaccavo, idealizzavo, scrivevo versi come fiocchi su un pacco vuoto.
Quando è finita, ho smesso di attingere a quel pozzo.
La vena poetica, tanto faticosamente scavata, è sparita con lui.
E oggi me lo chiedo con lucidità:
perché spremersi il cuore
perché scrivere solo per amore?
Quell’amore lì non mi ha salvata. Non mi ha ispirata davvero.
Mi ha solo illusa di avere qualcosa da dire.
Ora sono sola.
E sto bene.
Scrivo ancora, ma senza bisogno di sanguinare.
Perché la scrittura può nascere anche dalla pace.
Dalla libertà. Dal sorriso
Dalla consapevolezza che non si ama per forza, e non si scrive per mancanza.
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