Nella notte tra il 21 e il 22 luglio, a Gaza, carri armati israeliani hanno aperto il fuoco contro un accampamento di tende dove dormivano civili sfollati. Il bilancio provvisorio è di almeno tredici morti.
Le immagini sono chiare. I corpi a terra, le tende sventrate, il panico.
Nessuna ambiguità: non si trattava di combattenti, non era in corso un attacco.
Era una zona abitata da famiglie che avevano già perso tutto.
Colpire un’area del genere non può essere definito “errore”. È una responsabilità. Un crimine.
Si è scelto di colpire un luogo visibilmente privo di difese.
Chiunque abbia autorizzato quell’azione sapeva cosa stava facendo.
L’attacco è avvenuto nel campo di al-Shati, una delle zone più densamente popolate da sfollati. Sono le stesse aree dove, da mesi, vivono migliaia di civili senza acqua, cibo né cure.
Molti dormono all’aperto. Tutti sono in fuga. Ma nessuno è al sicuro.
È impossibile continuare a parlare di “difesa” o di “obiettivi mirati” davanti a simili episodi.
Non c’è giustificazione strategica o militare per aprire il fuoco su un accampamento di tende.
Non si può nascondere un’azione simile dietro la retorica del conflitto o della lotta al terrorismo.
Questo attacco è solo l’ultimo di una lunga serie di episodi in cui i civili pagano il prezzo delle operazioni militari israeliane, spesso condotte in zone dove è impossibile distinguere un bersaglio da un rifugiato.
Si continua a colpire aree dove la popolazione ha già perso case, familiari, mezzi di sostentamento.
Si continua a ignorare le regole fondamentali del diritto internazionale e umanitario.
E la comunità internazionale continua a osservare, a esprimere “preoccupazione”, senza agire.
Colpire persone che dormono in tende è un atto di disumanità.
Non può essere ignorato, né relativizzato.
È un abominio.
E deve essere trattato come tale!
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