Il cane, il semaforo e il budino giallo

cane

Sto tornando dalla stazione. Ho appena accompagnato mio figlio, e ora la città mi riassorbe piano, come se non fosse successo niente.
Via A.Caccia si stende larga, a tre corsie, incorniciata da tigli che resistono al caldo con la dignità di vecchi soldati. I marciapiedi sono larghi e sorprendentemente puliti, come se qualcuno li avesse lucidati per una parata che non ci sarà.
Da un lato si alzano palazzoni signorili, balconi e tende che raccontano ancora un certo orgoglio borghese; dall’altro, condomini moderni, cubici, sorretti da portici dalle gambine sottili, rigorosamente imbrattati di graffiti, tele urbane di artisti improvvisati.
In mezzo, come un monumento alla contraddizione, spicca una lussuosissima casa di riposo, tutta in marmo grigio lapide: non sembra nemmeno una residenza per anziani, ma una modernissima clinica privata, riservata a quei ricconi che possono permettersela.
È una strada divisa, elegante da un lato e un po’ sbracata dall’altro, come un abito cucito in fretta con due stoffe incompatibili.
Al semaforo rosso mi fermo. L’auto si spegne in automatico: parte lo Start & Stop. Sono una brava cittadina, io. Anche se ogni volta temo che non riparta e resti piantata qui.
L’aria nell’abitacolo è soffocante, i raggi filtrano dritti dal parabrezza. Un clacson lontano starnazza come un’anatra isterica, mentre un motorino passa rombando come se stesse gareggiando con il caldo.
Lo sguardo mi cade a destra: una signora di mezza età, jeans azzurri attilati. fianchi esagerati che disegnano una silhouette vagamente trapezoidale, è ferma accanto a un tiglio.
I capelli sono tirati su con una molletta, grossa e dentata come una trappola per topi.
Trascina al guinzaglio un cagnetto nero, piccolo e secco, un bastardino che sembra il risultato di un incrocio tra un mocio Vileda e un’antenna TV.
Lui, con l’ostinazione dei santi e dei martiri, cerca di defecare sui pochi fili d’erba spelacchiata alla base del tronco. Le zampe tremano, il muso è contratto in una smorfia tragica, e lei lo tira via fissandolo infastidita, come si guarda un forno che non si accende.
Il semaforo scatta verde, il traffico ruggisce, ma io resto con quell’immagine appiccicata in testa: la donna col mollettone e il cane-bastoncino, impegnati in una battaglia intestinale contro l’universo.
Sollevo lo sguardo al cielo oltre il paraluce: nuvole bianche, a forma di pecorelle, annunciano un temporale. Sembrano ridere di noi, bloccati al semaforo con un cane che non ce la fa.
Riparto lentamente. I palazzi scorrono davanti a me: quelli vecchi sono stati riverniciati, rinfrescati col famoso bonus del 110%, e ora sfoggiano un giallino pallido che più che eleganza ricorda un budino alla vaniglia, un pò smorto, un pò scolorito dal sole.
Guardo ancora il semaforo, il cielo, la strada. Tutto è cambiato, eppure niente sembra migliore. Solo più caldo, più rumoroso, più giallo.
E intanto, da qualche parte, quel cane continua a spingere.
Come noi tutti: testardi, sudati, convinti che prima o poi qualcosa debba uscire – anche se il mondo, attorno, resta fermo a guardare.

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2 commenti su “Il cane, il semaforo e il budino giallo”

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