Giuseppe Ungaretti (1888–1970) è stato uno dei maggiori poeti italiani del Novecento. Nato ad Alessandria d’Egitto da genitori lucchesi, visse un’infanzia circondata da lingue, culture e deserti. Questa dimensione sospesa tra mondi diversi alimentò fin da subito la sua visione poetica, fatta di mistero, spiritualità e parola essenziale.
- Un poeta nato tra le sabbie e la guerra
Dopo essersi trasferito in Europa, Ungaretti partecipò alla Prima guerra mondiale come soldato semplice. Fu proprio in trincea che cominciò a scrivere le poesie più note della raccolta Il porto sepolto (1916), brevi lampi di parola capaci di contenere il dolore, lo stupore e l’umana fragilità. A differenza di altri poeti-soldato, Ungaretti non si concentrò sul racconto realistico del fronte, ma cercò nella parola una forma di sopravvivenza spirituale.
- L’ermetismo e la poesia essenziale
La sua scrittura fu definita “ermetica” perché tendeva alla massima concentrazione espressiva: versi brevi, scarnificati, sospesi nello spazio bianco della pagina. In realtà, Ungaretti non fu mai un teorico dell’Ermetismo. La sua ricerca era più esistenziale che estetica: attraverso la parola voleva dire l’indicibile. Celebri poesie come Veglia, San Martino del Carso, Fratelli, testimoniano un bisogno assoluto di dare senso all’assurdità del dolore.
- Tra Roma e il Brasile
Dopo la guerra, Ungaretti fu ambasciatore culturale, giornalista, professore e viaggiatore. Insegnò per anni in Brasile, dove continuò a scrivere. Nel secondo dopoguerra tornò in Italia, venne accolto nell’Accademia d’Italia e divenne una figura autorevole della cultura nazionale. Tra le sue opere più mature ricordiamo Il Dolore (1947), dove la tragedia personale – la morte del figlio Antonietto -si intreccia con quella collettiva del secondo conflitto mondiale.
- La voce fragile dell’uomo
Ungaretti non scrisse mai “per decorare”. La sua poesia è fatta di verità nuda, tremore, tensione metafisica. Ogni parola, scelta con cura quasi mistica, si carica di un senso profondissimo. Anche la punteggiatura sparisce spesso: ciò che resta è la voce pura dell’uomo, che sussurra alla notte, cerca la luce, resta in ascolto.
✍️ Un’opinione personale
Leggere Ungaretti oggi significa immergersi in un linguaggio scarno e potente, dove ogni silenzio è significativo quanto la parola. Non è un poeta facile, e proprio per questo continua a parlarci: non spiega, non consola, ma suggerisce.
È un poeta che si può leggere in un minuto… e meditare per ore. In un’epoca di parole ridondanti e immediate, Ungaretti ci insegna che togliere è spesso il modo migliore per dire.
Luce scavata
(a Giuseppe Ungaretti)
Mi sollevo
in un silenzio
che sa di cenere.
Un nome
mi trema
sulle labbra.
È l’alba
o solo
la fine
del buio?
Questa poesia, composta in omaggio a Giuseppe Ungaretti, ne evoca con grande fedeltà lo stile scarno ed essenziale, tipico dell’ermetismo delle origini. Ogni verso è una fenditura nella materia, un frammento carico di vuoto e significato insieme. Il titolo, Luce scavata, è già ossimorico: la luce non riempie, ma scava. Non rivela, ma lacera.
Nel primo verso, Mi sollevo / in un silenzio / che sa di cenere, il poeta restituisce l’eco della trincea ungarettiana: c’è il gesto minimo dell’uomo che si alza, ma non verso la speranza, bensì dentro un silenzio che brucia e resta. Il riferimento alla cenere è potente: morte, rovina, ma anche residuo di qualcosa che è stato fuoco, vita.
Segue un verso apparentemente semplice, ma profondamente umano: Un nome / mi trema / sulle labbra. Qui ritorna il nodo affettivo e universale della poesia ungarettiana: la memoria di qualcuno (un compagno, un fratello, Dio?) che non si può pronunciare del tutto, perché tremante, forse perduto.
Il finale introduce una tensione metafisica: È l’alba / o solo / la fine / del buio? Qui l’autore non afferma, ma chiede.
È un’interrogazione esistenziale, non retorica. Non sappiamo se stia iniziando qualcosa o se stia solo finendo il dolore. Come spesso accade in Ungaretti, la luce non è mai certa, l’alba è sospetta, la salvezza è dubbia.
Una poesia breve, ma carica di interrogativi e di dignità.
Non è un’imitazione, ma un omaggio autentico: non copia lo stile, lo interiorizza.
Perfettamente riuscita.