Rupi Kaur- Poesia, marketing e frasi da social

Rupi Kaur è l’emblema di una poesia che non chiede di essere letta, ma solo guardata.
Frasi spezzate, zero punteggiatura, parole dolciastre impilate come biscotti dietetici. La sua è una lirica ridotta all’osso- non per essenzialità stilistica, ma per consumo rapido.

Le sue poesie sembrano uscite da una cartolina motivazionale stampata su cotone biologico: si leggono in sei secondi, si condividono in tre, si dimenticano in due. Il tutto condito da quel tono woke e spirituale che rassicura chi ha bisogno di sentirsi ferito ma non troppo, arrabbiato ma in modo fotogenico.

Il vero capolavoro, però, è il marketing: ha trasformato l’autoaffermazione terapeutica in prodotto da libreria, ha venduto milioni di copie dicendo “lascia andare”, “sei abbastanza”, “non è colpa tua”, e ha fatto della sofferenza in stampatello minuscolo un’industria.

Il punto non è che Rupi non sappia scrivere: è che non scrive per la parola, ma per l’impatto immediato.
È poesia? Forse. È onesta? Probabile. È necessaria? Difficile dirlo.
Ma una cosa è certa: funziona, come il profumo troppo forte – ti resta addosso anche se non l’hai chiesto.

Quando mi sono innamorata di me stessa

mi sono allontanata da tutto
che non mi faceva stare bene
questo non è egoismo
è amor proprio

Commento critico

La struttura, sempre identica: verso breve, pausa emozionale, colpo finale rassicurante.
Qui l’apparente profondità si rivela presto per quello che è: una pillola zuccherata di psicologia spicciola.
Non c’è ricerca di suono, nessuna tensione ritmica, niente ambiguità. Solo dichiarazioni.

Una lista della spesa emotiva:
– via la sofferenza
– via gli altri
– resta solo “me stessa”

È poetico? Solo se abbiamo deciso che parlare con se stessi in modo carino è poesia.
Funziona? Sì, come una citazione su Pinterest.

Il rischio è che, dietro questa esaltazione dell’autoaffermazione, si nasconda un pensiero povero, non meditato ma confezionato.
Una poesia che non nasce dalla necessità della parola, ma dalla necessità di essere condivisa.

N.d.r

  • L’Instapoetry, di cui Kaur è emblema, è accusata di ridurre la poesia a un “McDonald’s della scrittura”: frammenti esteriormente carini, ma piatti, banalizzati e creati per il consumo immediato
  • Il The Times nota che il fenomeno testimonia la predilezione pubblica per espressioni emotive superficiali, preferite alla complessità poetica: versi semplici e formattati a fisarmonica, pronti per il feed, ma senza profondità
  • Secondo il Guardian, la sua popolarità ha democratizzato la poesia, abbattendo i cancelli del canon letterario. Tuttavia, il successo ha portato anche parodie e risate ammirate, segno che l’“emoji-poesia” è diventata esperienza emotiva rapida e condivisa

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3 commenti su “Rupi Kaur- Poesia, marketing e frasi da social”

  1. Non so… Conoscevo già Rupi Kaur per sentito dire, ma in realtà non avevo mai letto le sue poesie né su carta (perché, sì, le pubblica anche su carta, e le illustra pure perché è una artista) né su Instagram fino a poco fa.
    Sono poesie (o frasi) femministe, d’amore, d’amicizia, sul rapporto padre-figlia.
    In pochi anni è diventata famosa e, lo dico con una punta d’invidia (ma in realtà la stimo perché è stata davvero brava nel farlo) con estrema perspicacia.
    Non piaceranno a tutti, per alcuni potrebbero semplicemente apparire vuote, ma per altri le sue poesie arrivano dirette, sono “potenti”.
    E’ figlia di questo tempo.
    Penso sia giusto così, ma fatto sta che Rupi Kaur è riuscita là dove molti hanno fallito, dove io ho fallito.

    Da un articolo sul web: “[…] in un’epoca in cui la forma poesia è da molti considerata ormai sorpassata, inadatta a esprimere il mondo e la vita così come li conosciamo oggi. Uno dei punti di forza del successo di Rupi risiede proprio nella sua capacità di combinare poesia, illustrazione e social media: i suoi versi si adattano perfettamente al formato Instagram e i disegni che spesso le accompagnano (anche questi opera di Rupi) ne offrono un efficace contrappunto grafico.”

    NON VOGLIO AVERTI
    non voglio averti
    per riempire i vuoti in me
    voglio essere piena già di mio
    voglio essere così completa
    da poter illuminare una città intera
    e dopo
    voglio averti
    perché noi due messi insieme
    potremmo incendiarla.

    Rispondi
    • Capisco il tuo punto di vista e so che parli con onestà, anche quando dici “forse è solo invidia”.
      Ma il problema, per me, non è il successo -che va rispettato, se arriva così ampiamente- è cosa diventa la poesia quando si svuota di qualsiasi ricerca, ambiguità, rischio o tensione.
      Non si tratta di snobismo, ma di un dubbio concreto: se bastano frasi carine, spezzate, rassicuranti per essere considerate poesia…allora stiamo forse parlando di un altro genere, o addirittura di un altro mestiere.
      E va bene così. Ma diciamolo.
      Io non ho nulla contro il fatto che qualcuno si senta “vista” da quei versi.
      Anzi: è bello che ci siano testi accessibili, che parlano d’amore, identità, ferite…
      Ma se la parola non vibra, se non c’è suono, se la forma è sempre identica, allora forse è più psicologia applicata che poesia vissuta.
      E questo, a lungo andare, si sente.
      Non è una condanna. È solo una domanda: è davvero questo quello che vogliamo da un verso?
      O è solo quello che il mercato ci ha insegnato a cercare?

      Con affetto e stima (davvero) 🙂

      Rispondi
      • Sì, molto probabilmente stiamo parlando di un altro genere che prende spunto dalla poesia, ma non è poesia, e che è fortemente influenzato dal fenomeno dei social network, caratterizzato dalla diffusione globale e dall’impatto significativo che queste piattaforme hanno sulla società: sono frasi, versi, testi abbinati a disegni che subito arrivano e che se presi separatamente risulterebbero ancora più banali.
        Rileggendo il tuo articolo, mi ha colpito l’espressione “McDonald’s della scrittura”, frammenti creati per un consumo immediato…
        Purtroppo siamo ancora succubi del consumismo.
        Le nuove generazioni crescono ancora in una società fortemente orientata al consumo, dove l’acquisto di beni e servizi è visto come un elemento centrale della vita e del benessere individuale e collettivo, e tutto ciò si riflette anche sui canali social.
        Per cui, sì, molto probabilmente è quello che il mercato ci ha insegnato a cercare 🙂
        Ma solo il tempo darà risposte concrete alle nostre domande.

        Con affetto e stima contraccambiata (davvero, davvero!) :-*

        Rispondi

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